Le radici del silenzio è un bel libro. Prima di tutto per una questione di stile. Sono pochi oggi i libri ancora scritti bene, quando prevale il vezzo della scrittura approssimativa, trasandata, per non dire addirittura scorretta. Sono quei piccoli snobismi italiani, che pochi altri popoli condividono. Un po’ come l’andare in giro, da anni a questa arte, con i jeans strappati. Uno snobismo che alla fine diventa qualcosa di molto provinciale, oltre che cretino. Vai a Parigi, per esempio, capitale del ’68, luogo di Montparnasse, del Quartiere Latino e della banlieue, e di quei jeans fintamente poveri non ne vedi neanche uno, tanto meno addosso ai veri poveri. E’ lo stesso snobismo per cui da noi fa fino essere maleducati, mettere i gomiti nel piatto, insultare gli altri, digrignare i denti invece che sorridere. Così da un po’ di tempo storpiare l’italiano è diventato condizione privilegiata per farsi pubblicare da qualche casa editrice altrettanto snob e fintamente a sinistra come per esempio l’Einaudi con la sua collana Stile libero, che gioca furbescamente sul caso letterario. Un libro come questo di Caracci dalla collana Stile libero non può essere preso in considerazione. Prima di tutto, appunto, per una questione di stile, perché è scritto troppo bene. Il che non significa però, per carità, che si tratti dello spesso esecrabile accademismo di tanta cosiddetta “prosa d’arte”, ma semplicemente che si tratta di letteratura. Ma, stile a parte, si tratta anche di contenuti. Infatti ormai allo stile sciatto si abbina la sciatteria dei contenuti che privilegia meccanicamente una totale mancanza di anima, se mi si consente l’uso di questa parola vaga, indefinita e che usiamo sempre con una certa perplessità, però tutto sommato credendoci, così come si può parlare di divino e di sacro senza sapere bene di che cosa si tratti veramente però in qualche modo credendo che qualcosa del genere debba esistere, qualcosa cioè che ci sfugge in continuazione eppure è lì e d ed è l’unica suscettibile di dare un senso alle nostra vite. Lo stesso succede con il libro di Caracci: che gira costantemente intorno, appunto, a questo punto indefinito e indefinibile, che potremmo cercare di definire inadeguatamente come il Senso. Senso peraltro continuamente eluso, rinnegato, sbeffeggiato non solo dalla vita ma dall’Autore stesso, come ben testimoniano queste pagine, eppure sempre risorgente, inaffondabile, impermeabile a qualsiasi disfatta, che a sua volta sbeffeggia la vita e lo stesso Autore al di là di ogni sua lucida intenzione. E quindi ne risulta un libro anche amaro, a volte anche un po’ cinico, irridente, perfino dissacrante, a volte un po’ repulsivo, si direbbe che viaggi a sua volta verso il pulp, ma poi no, non è così, è solo lontano da ogni retorica dei buoni sentimenti: è la vita che è pulp, ma però poi è anche sorridente bella allegra e perfino materna. Così questo libro testimonia al suo stesso Autore il fatto che la realtà, anche nelle sue pieghe più intime, è così profondamente contraddittoria che è d’obbligo una sospensione di giudizio. Le radici del silenzio non rischiano perciò nemmeno di cadere nel difetto opposto, cioè uno stucchevole buonismo, ma semplicemente (uso questo avverbio non per dire che la cosa sia semplice, perché non lo è, ma che questo viene fatto con una certa misura di semplicità, cioè senza arroganza) ripercorrono con sofferenza, ma anche con gioia, le eterne strade per le quali la letteratura diventa chiave per cercare di accostarci al mistero dei cuori umani, e al misterioso rapporto che lega tutte le cose e le cose al cosmo, e il cosmo a un sempre ulteriore e sempre aperto interrogativo. Il rapporto profondo e difficilmente indagabile fra le “galassie del cervello” e le “costellazioni”. Quello che dovrebbe essere evidente ma purtroppo non lo è più. E così questo libro di narrativa si avvicina a un libro di poesia. Perché è proprio della poesia trovare “corrispondenze” e risolvere le contraddizioni non risolvendole affatto, non volendo affatto chiarirle , ma piuttosto renderle ancora più misteriose, fantasmagoriche, inquietanti. E arrivare a trasformare – per fare un esempio tratto da questo libro - le foglie autunnali dell’acero bianco, invece che nell’indizio di una fine, di un lento spegnersi veleggiando in direzione della morte, in un gioco pirotecnico e festoso che inneggia alla vita. Perché è proprio della poesia scoprire anche un possibile lato gioioso della morte.